Swingle Singers: a lezione di postmoderno

note di sala scritte per il Teatro alla Scala in occasione di un concerto degli Swingle Singers

di Marilena Laterza

È un brand inconfondibile il doo boo dah bah di questi otto coristi che, in uno studio di registrazione parigino, improvvisavano letture estemporanee del Clavicembalo ben temperato per scaldarsi la voce prima di una sessione con Edith Piaf, e un pomeriggio del ’62 intuirono che quel Bach a la Louis Armstrong poteva entusiasmare le platee di tutto il mondo. Ma se gli Swingle Singers, coi dovuti avvicendamenti, sono ancora in scena dopo quasi mezzo secolo, capaci di passare dal jingle di Super Quark a uno dei lavori più rappresentativi della musica del ‘900 come Sinfonia di Luciano Berio – concepita espressamente per loro – forse non siamo semplicemente in presenza di un’operazione ben riuscita di marketing: ci dev’essere un significato storico e culturale meno appariscente che, a prima vista, rischierebbe di sfuggire.

Negli stessi anni in cui Ward Swingle montava col suo gruppo i primi arrangiamenti, a qualche centinaio di metri Claude Lévi-Strauss, dalla cattedra di antropologia del College de France, svelava ai suoi allievi la possibilità di scoprire interconnessioni tra mondi e tradizioni in apparenza dissociati, esplorando il modo in cui materiali di fondo possono essere invertiti, ribaltati, ricontestualizzati. Se proviamo ad inforcare questa lente interpretativa, ecco che l’eterogeneo paesaggio sonoro dispiegato dagli Swingle smette di apparirci un iPod impostato in modalità random e questi objets trouvés “da Bach ai Beatles” schiudono collegamenti e integrazioni sorprendenti, in una sorta di bricolage intellettuale dove il personalissimo fil rouge di fondo intesse un nuovo “intero” fluido, plastico, poliedrico. Si tratta, certo, di una visione outside rispetto al protocollo, visione che tuttora potrebbe far arricciare il naso alle accademie. Ma è forse tempo di svernare da una concezione ottocentesca che vuole l’arte eroica individualità; nella capacità di arrangiamento e assemblaggio, nel saper indovinare e offrire una certa rielaborazione di un pezzo e non un’altra, e nell’affiancarla a un’altra ancora, risiede infatti non soltanto un atto implicito di comprensione, ma anche una potente forma di ri-creazione, secondo una lezione postmoderna che l’eclettico programma di questa sera concretizza in maniera inconsueta.

Manifesto della folksong al femminile, Both sides now di Joni Mitchell spalanca un campo lungo d’apertura sui “castelli di gelato” dei cieli canadesi azzurro e nuvole, interrotto con perizia cinematografica dall’Overture del Flauto magico mozartiano, che s’inerpica in un primo tour de force brulicante di voci in fuga dopo la suspense dell’Adagio introduttivo. Col Preludio op. 28 n. 4 di Chopin l’inquadratura indugia quindi su un arco melodico finemente evocativo, smentito da una riproposizione concitatamente jazzata per poi tornare all’accorato originale. Imprevedibile l’affinità costruttiva con Until (Golden Globe 2002) in cui, sul rovello incalzante di fondo, si stagliano gli aneliti cosmici vagheggiati dal romanticissimo testo dell’ex leader dei Police, diluiti nella 1ère Gymnopédie di Erik Satie: le nuances si fanno crepuscolari per questa musica lievemente cadenzata che, nelle intenzioni fin de siècle del compositore, ambiva ad allestire vibrazioni “senza altro scopo che la stessa funzione della luce”.

Cambio di set con Fascinatin’ rhythm, classico anni ’20 della rhythm song che si snoda con eleganza relaxed seppur coinvolgente, grazie a sincopati e cromatismi di un songwriter di vaglia quale Gershwin, meno sofisticato forse di Cole Porter e della sua It’s all right with me, chanson charmant punteggiata da una trama ritmica allusiva al felice errore dell’«It’s not her smile, but such a lovely smile». Arguto l’incrocio successivo di Flying high e When september ends, licenziate da Jem e Green Day nel 2004 e accomunate, come l’arrangiamento indovina, da inaspettate somiglianze armoniche oltre che da una soffusa distensione pop-adolescenziale d’evasione, che glissa quindi sul sapore agrodolce di On the 4th of July, ballad altrettanto recente di un cantautore storico come James Taylor, qui in abiti gradevolmente rétro.

Stesso continente ma nuove latitudini per il maestro della bossa nova Tom Jobim e il paladino del nuevo tango Astor Piazzolla: alla sensualità sinuosa e vellutata di Surfboard si affianca l’intrigante sehnsucht meridiana di Libertango, i cui jazzismi e dissonanze furono sconfessati finanche da Borges, salvo mostrarsi poi l’unica via di salvezza per un genere condannato altrimenti all’estinzione.

Occorre invece indulgere a uno sguardo smaliziato per apprezzare il gioco di meta-citazioni proposto con A fifth of Beethoven di Walter Murphy, perché l’oggetto ritrovato con cui gli Swingle si baloccano non è la sinfonia beethoveniana, bensì la sua rilettura disco anni ’70. Immancabile, a questo punto, il triplice focus beatlesiano, dalla versione soft di Lady Madonna – dove il boogie-woogie citato da McCartney si stempera in mera reminiscenza – ad Eleanor Rigby, icona della comedy song col suo doppio quartetto d’archi originale che perfettamente si addice allo Swingle singing. Di mezzo, il connubio di Blackbird e I will in un corale di ricercatezza aggraziata nonostante l’impegno dell’una e il tono frivolo dell’altra, ricercatezza poi ribadita dal fascino arcano in sospensione di Unravel, che la pop singer islandese Björk firma nel ’97 a metà strada tra naïveté manierata e avanguardia.

Sapiente il controcampo con Gotcha dal telefilm americano Starsky and Hutch, cui gli Swingle conferiscono un’impensata allure nonostante le incursioni fusion ridondanti, prima di catapultarci in pieno barocco con l’eccellente resa del Concerto grosso op. 6 n. 8 di Corelli, dove le linee polifoniche rilucono con squisito nitore nel chiaroscuro di impasti, e lo swing non fa che conferire levità informale al Vivace-Grave-Allegro. Di qui a un must come l’Aria sulla quarta corda di Bach il passo è breve e ci introduce alla stretta finale, dalla sortita in un saloon del Midwest di Country dances alla spigliata mondanità da tit-tap di It’s sand, man, sopraffino divertissement conclusivo.

Ma quale meta per quest’Orient Express lanciato in corsa lungo la storia della musica di ogni epoca e latitudine? In tempi in cui un provocatore di turno riesce a far scricchiolare gli steccati ormai cigolanti tra musica “colta” ed “extracolta”, mandando in tilt frotte di musicisti, critici e fans, gli Swingle Singers schivano il «what» in favore dell’«how» e ci portano in viaggio con un’intuizione “congenita” in tasca: la musica non è un edificio in pietra, ma un organismo pulsante; e soltanto le tensioni laceranti tra puro e impuro, artico e australe, tra struttura astratta e materia in fermento, modificandola senza posa, le permettono di restare dialetticamente in vita.

versione in pdf